Pochi anni prima di posare con Maria Farnese e i figli per il Régnier, Francesco I si era (forse) offerto al pennello di un altro maestro – e che maestro! – in atteggiamenti non certo confidenziali e domestici, ma piuttosto bellicosi e marziali. Il dipinto, anch’esso conservato a Sassuolo poiché destinato alla delizia campestre fin dalla sua ideazione, fu terminato entro il 1634 come documentano le carte archivistiche su cui è registrato il saldo del pagamento, ed è di sicura autografia guercinesca come testimonia l’attendibile e attento “Libro dei conti”, appunto, del Guercino, che ne contiene la sommaria descrizione e la destinazione. Più difficile stabilire di quest’opera atipica e sorprendente la diretta committenza al pittore, forse dello stesso duca, forse di tal gentiluomo Cesare Cavazzi, che però delle collezioni ducali era il curatore amministrativo, e dunque poté essere semplicemente l’intermediario tra il sovrano e l’artista per definire l’esatto ordinativo del sovrano. L’opera su tela, dal titolo Venere, Marte e Cupido, venne definita “bizzarra” dallo stesso Francesco «per via dell’originale struttura compositiva in cui Cupido, nato dalla relazione tra Venere, dea dell’amore e della bellezza, e Marte, dio della guerra, punta la freccia dell’innamoramento dritta dritta verso l’osservatore con una straordinaria resa prospettica», mentre la madre con l’indice della mano destra posto esattamente sotto l’arco teso gli indica la medesima direzione, il medesimo bersaglio. Alcuni studiosi, cercando di interpretare il messaggio di un soggetto tanto curioso, sostengono che essendo il dipinto destinato al duca il duca stesso doveva essere il primo destinatario della freccia amorosa, come confermerebbe anche il simbolo araldico dell’aquila estense ad ali aperte e abbassate raffigurato sulla faretra accanto a Venere. Altri avanzano l’ipotesi che il duca non fosse solamente l’obiettivo ideale di quel terzetto divino e capriccioso, ma sia addirittura presente nel dipinto, lui uomo di guerra, nelle vesti di Marte: la chioma copiosa, il baffo curato, l’elmo piumato e crestato alla maniera farnesiana come nel ritratto certo di lui attribuito a Jean Boulanger, il drappo rosso da generale d’armata buttato sulla spalla come in tutti gli altri ritratti certi di lui, lo scettro in pugno, l’armatura luminosa, il piglio regale e la mano alzata nel gesto del comando, tutto di questo Marte rimanderebbe a Francesco ancora prima che a Marte, o meglio a Francesco rappresentato nell’armatura di Marte. E in un periodo in cui il duca aveva già dato avvio alla galleria dei ritratti estensi affidati a Guercino stesso, a Justus Suttermans, a Jean Boulanger, a Matteo Loves, a Bartolomeo Gennari, una serie straordinaria di dipinti purtroppo oggi in gran parte perduti. Non è quindi da escludere che, ritratto più ritratto meno, Francesco si sia divertito a farsi effigiare ora in maniera seria e formale ora spiritosa e allegorica. Al contrario, non è sicuramente da sospettare alcuna duchessa (e dalle carte superstiti si direbbe nemmeno alcuna amante clandestina) nelle carni bianche, nude e tornite della bella Venere.