Prima che si avventasse su di noi l’emergenza Coronavirus a tenere banco era il costante problema dello smog, con i continui sforamenti di PM10 e la quasi quotidiana entrata in vigore delle misure emergenziali anti-inquinamento. Da quando il Covid-19 ha imposto il blocco della circolazione, la qualità dell’aria è notevolmente migliorata. Una ricerca effettuata dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) però ha dimostrato come già ai tempi degli sforamenti il problema Coronavirus esistesse, e anzi proprio le PM10 elevate hanno contribuito a diffondere così tanto il Covid-19. Lo studio infatti ha analizzato i dati ARPA delle centraline sul suolo nazionale registrando gli episodi di sforamento nelle province italiane e comparandoli con i casi di contagio dal virus, concludendo che “esiste una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo dal 10 al 29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 marzo”. Questo perché le polveri veicolano il virus, come afferma Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari. “Più ce ne sono più si creano autostrade per i contagi”. I ricercatori hanno dichiarato che nella Pianura Padana “si sono osservate curve di espansione dell’infezione in coincidenza a distanza di 2 settimane con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico.” Il particolato atmosferico infatti oltre ad essere un trasportatore di contaminanti chimici, biologici e virus, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni”. La ricerca quindi dimostra come anche per il futuro si debba procedere in un’ottica di sostenibilità ambientale per evitare il rischio di altre epidemie.